La silvicoltura tradizionale

Descrizione

Per meglio comprendere il rapporto tra bosco e uomo nel nostro territorio, è interessante richiamare le necessità e le tecniche con cui veniva praticata la selvicoltura prima dell’introduzione delle macchine moderne (trattori, motoseghe…) e del riscaldamento a gas.

Innanzitutto, a differenza di oggi, il bosco non era frequentato dal rispettivo proprietario solo al momento del taglio, che avveniva rigorsamente nei mesi invernali, ma durante tutto l’anno, così da poter raccogliere manualmente tutto il “morto” e aumentare la resa di legname incamerato. Questo poichè, se il combustibile era assolutamente necessario per scaldarsi nella stagione fredda, lo era in qualsiasi momento per mantenere le cucine con cui si preparavano i pasti quotidiani.

 

Le tecniche di taglio

Il taglio era effettuato con tecniche diverse a seconda delle dimensioni della pianta. La roncola (la fòlc o fòlcin) era lo strumento quotidiano per sbroccare i rami, tagliare alla base gli arbusti, trascinare, spostare piccoli tronchi, agganciare i ceppi da estrarre. Poichè il sottobosco era sempre lasciato sgombro, questo attrezzo serviva a liberare il terreno dai rovi, tagliare brugo e ginestra usati come strame, ma anche per risolvere un qualsiasi problema o inconveniente durante il lavoro. In questo senso, la roncola rappresentava quasi l’estensione meccanica del braccio del boscaiolo e, quando non era impugnata, rimaneva fedelmente agganciata alla cinta dei pantaloni, dietro la schiena.

Gli alberi più grossi potevano essere rimossi con due sistemi, che venivano scelti a seconda della semplicità di esecuzione nella situazione specifica. Il primo prevedeva di scavare attorno alle radici e tagliarle progressivamente con la roncola o la scure (sigù, dalle nostre parti, segù in milanese), orientando il punto di caduta. In alternativa, si incideva a colpi di ascia un terzo del diametro del tronco, possibilmente ricavandone un cuneo da rimuovere, nella direzione di caduta desiderata della pianta; si tagliava poi dalla parte opposta con la classica sega a due mani (resigon o resegon). A volte si facilitava questa operazione inserendo, a colpi di mazza, cunei di ferro nel taglio procurato dalla sega, così da alleviare la compressione.

Il punto di caduta previsto era determinato dalla necessità di non far appoggiare la pianta ad altri alberi, dall’evitare che cadesse su esemplari giovani rovinandoli, ma anche dalla cautela – al tempo fondamentale – di non invadere sentieri o terreni di altri proprietari. Se l’albero non cadeva, si potevano legarla a una corda, avendo cura di farla scorrere prima addosso a un altro albero, e quindi tirarla fino al punto di rottura. Questo tipo di operazioni erano molto pericolose e spesso vittima di infortuni, anche mortali.

 

Il trasporto

Abbattuta la pianta, si procedeva a sbroccarla. Rispetto a oggi, anche i rami di diametro minuto venivano raccolti e caricati in gerle o direttamente su un carro, quando possibile. I tronchi venivano quindi sezionati (con scure, sega e cunei) in modo sufficiente da poterli trascinare o portare a spalla da più uomini per essere poi caricati. Rare erano le carrucole o i verricelli e altrettanto le corde di sufficiente lunghezza.

Il carro veniva qundi caricato con perizia, per ottimizzare e bilanciare il carico, e veniva condotto dalla forza animale fuori dal bosco fino al paese o alla cascina. La legna veniva fatta asciugare propriamente in cortile per alcuni mesi; poi tagliata orizzontalmente e spaccata verticalmente in dimensioni adeguate all’uso.

In primavera, finita la stagione dei tagli, si poteva procedere al trapianto di nuovi esemplari, che erano stati opportunamente coltivati da seme in vaso dai più oculati o prelevate da altri luoghi già germinate. Quercia e castagno erano le essenze più ricercate poichè davano legno “forte” che era possibile anche rivendere per falegnameria.

 

Autore

Matteo Colaone